Adolescenti e dipendenze tecnologiche: patologia e normalità
Questa domanda, è il titolo del libro di Nicholas Carr, giornalista scientifico, è un dubbio che spesso mi coglie usufruendo ormai con costanza e con assiduità i vari strumenti che abbiamo a disposizione; cellulari, internet, pc, smartphone. Credo di poter dire che non è una questione, solo, personale ma che riguarda la gran parte di noi, a tutte le età.
Cosa sta cambiando Internet nel nostro modo di pensare e di agire?
E’ uno strumento dannoso per la crescita dei nostri figli?
Ci rende stupidi, meno capaci di riflettere, di interagire?
Molte volte mi capita di incontrare insegnanti che mi mostrano -con aria affranta- foto dei loro alunni durante l’intervallo, in cui ciascun alunno sembra essere interessato solo a ciò che capita dentro il cellulare piuttosto che relazionarsi con il compagno di classe in carne e ossa.
O genitori che mi raccontano preoccupati che i loro figli passano la giornata al cellulare. Stanno perdendo tempo stando al cellulare?
A queste domande io non riesco a dare una unica e assoluta risposta ma posso provare a fare alcune riflessioni partendo dalla conoscenza della Storia di quali altri strumenti nel passato della storia dell’umanità hanno maggiormente modificato il nostro modo di pensare e di vivere.
Il libro di Nicholas Carr ci dice che le «tecnologie intellettuali» – cioè quegli strumenti che usiamo per ampliare o rafforzare le nostre capacità mentali- che hanno cambiato il nostro modo di pensare sono: la mappa, l’orologio, la stampa e oggi internet.
L’invenzione della mappa ha portato a sviluppare la capacità di astrarre, di riuscire a rappresentare qualcosa che non esiste lì davanti ai nostri occhi.
L’orologio invece ci ha insegnato a scandire, a programmare e pianificare e misurare il tempo.
Per quanto riguarda la stampa vorrei citarvi Platone che afferma attraverso il suo personaggio Fedro che la parola scritta è «un rimedio giovevole non già alla memoria, ma alla reminiscenza. Coloro che si affidano alla lettura per la propria conoscenza si crederanno in possesso di molte cognizioni pur avendo un gran fondo di ignoranza. Possiederanno non la sapienza, ma la presunzione di sapienza.» «soltanto una persona sciocca potrebbe pensare che un resoconto scritto sia meglio della conoscenza e della rievocazione orale dello stesso argomento.»
Oggi ci sembra quasi insensato e folle un simile giudizio sulla parola scritta eppure questo fu l’atteggiamento con cui venne accolta e fu decisamente smentito dalla storia successiva anzi possiamo affermare che grazie alle pagine stampate le nostre menti divennero più contemplative, riflessive e fantasiose”. «La quiete della lettura assorta divenne parte del senno». Carr
E questo stesso atteggiamento mi sembra di ritrovarlo oggi nei confronti dell’ultimo nuovo strumento che sta cambiando rapidamente e in maniera irreversibile e sostanziale il nostro modo di ragionare, di costruire relazioni e di pensare: internet
Che cosa ci può dire invece la scienza sugli effetti reali che l’uso di internet sta producendo sul modo di funzionare delle nostre menti?
Gli studi sono molti, ma a grandi linee possiamo affermare che quando andiamo on line entriamo in un ambiente che favorisce la lettura rapida, il pensiero è distratto e affrettato, l’apprendimento è superficiale e c’è difficoltà di concentrazione.
Non tutti però ritengono che questo cambiamento possa rappresentare uno svantaggio evolutivo.
La storia e la scienza ci aiutano a capire meglio quello che sta succedendo ma certo non possono essere esaustivi su quelli che saranno gli sviluppi futuri ma neanche ci indirizza verso la visione di una catastrofe in cui tutti saremo schiavi «stupidi» di questo mezzo, anzi sembra lasciare sperare in sviluppi non prevedibili al momento, ma non per questo nefasti e distruttivi.
Molte questioni sull’impatto di internet sulle nostre menti e sul nostro modo di vivere ce le poniamo perché noi adulti abbiamo esperito un mondo senza internet, mentre i nostri ragazzi danno per scontato di “esistere” anche in internet e con internet e queste domande non se le pongono e non le capiscono.
Siamo stati noi adulti a fornirgli il telefonino per i vantaggi che ricaviamo tutti da tale strumento: la reperibilità, le informazioni sempre disponibili, gli orari dei pullman, i soldi per pagare il gelato e tanto altro che sappiamo possibile fare con molta comodità dal nostro telefonino.
Con altrettanta sicurezza e serenità dovremmo essere noi genitori, insegnanti e tutti gli adulti di riferimento che i nostri ragazzi incontrano nei vari contesti sociali, a orientarli e a guidarli nell’utilizzo del «regalo» che abbiamo fatto loro.
I rischi e i vantaggi che la scienza ci evidenzia, ci danno però secondo me una visione parziale perché non indagano il comportamento umano nella sua interezza.
Per quanto l’uso del device possa modificare i comportamenti e le modalità di apprendimento e di leggere il mondo, sembrerebbe d’altronde, dall’ esperienza clinica, che per quanto concerne i bisogni squisitamente umani di creare legami, di sentire la vicinanza con le persone, di creare una comunità di appartenenza e di ricercare da parte degli adolescenti dei riferimenti tra gli adulti, sia in realtà cambiato molto poco.
I bisogni più profondi delle persone non sono cambiati, il bisogno di relazione implicito nell’essere umano non deve temere la tecnologia.
L’idea che mi sono fatta è che il bisogno di conferma degli adolescenti tra i pari possa essere soddisfatto in parte nelle relazioni sociali in rete, mentre il confronto e l’appoggio necessario degli adulti non lo vogliano trovare nella rete, ma necessiti di uno spazio diverso, UNO SPAZIO VISSUTO.
Anzi gli adolescenti non ci vorrebbero proprio nel loro mondo virtuale; ci vogliono nelle scuole, nei centri sportivi, in luoghi reali dove possano essere visti nella loro interezza e fare esperienza di parti psichiche che inevitabilmente rimangono in disparte nelle relazioni virtuali, dove una parte di realtà può essere oscurata e modificata.
La parte assente nel web è il corpo, che in adolescenza, proprio per il particolare periodo di cambiamento, è il difficile compagno della propria personalità con cui confrontarsi. La possibilità che regala il web di essere presenti e visti dagli altri senza però rischiare «la faccia», può dimostrarsi un rifugio sicuro e al tempo stesso una vetrina per stare ad osservare ciò che succede fuori.
I ragazzi ci vogliono capaci di vederli nella loro interezza: la loro vita che cresce e si alimenta del telefono e nel telefono e la vita che sta fuori dal telefono, la scuola, la squadra di calcio, le uscite con gli amici serali ecc. Entrambe le vite sono importanti e sono correlate. E non sono in contrapposizione tra loro.
I pazienti giovani sono stati i primi a voler tornare in seduta vis a vis; forse bisognosi di qualcuno che restituisse peso e forma alla loro vita troppo virtuale.
Il bisogno di esistere in tutta loro interezza, di «sentire» che qualcuno li sta ascoltando nel vero, nel reale. Forse dopo tutte quelle ore passate a giocare a vari giochi in rete on line con amici o anche con sconosciuti ma accomunati dalla stessa passione per lo stesso gioco, si sono sentiti sacrificati in altri bisogni primari dell’anima, qualcosa che gli esperimenti di neuroscienze non trovano perché non lo cercano proprio, ma che esiste tanto quanto esiste la memoria, l’intelligenza e anzi influisce su tutte queste funzioni.
Io la chiamo “Presenza”. L’”essere”. L’”anima”
Sono sensazioni, emozioni attivate dalla presenza di un’altra persona accanto a te. Non so se la parola possa esprimere tale concetto, credo però che anche se le parole non sono esaustive tutti possano comprendere di cosa stia parlando.
Durante li lockdown anch’io ho dovuto utilizzare le sedute on line, inizialmente.
Come mia predisposizione le novità mi piacciono e il dover cambiare setting mi stimolava perché l’ho visto subito come un’opportunità per conoscere aspetti delle persone che vengono stimolati dal cambiamento di contesto.
Infatti è stato così. Le persone hanno mostrato degli aspetti che nel contesto analitico classico sarebbero emersi magari in un tempo più lungo o forse non sarebbero emersi mai. Non lo posso sapere.
A parte gli aspetti puramente tecnici, cioè fissare lo schermo per ore, -che da subito ho trovato molto stancante per la vista, e per l’attenzione- per il resto ho ripreso l’intimità della relazione con il paziente e l’ho coltivata anche nella seduta on line. Però con il passare dei mesi sentivo il desiderio di vederli dal vivo. Quale bisogno stavo trascurando nelle mie sedute on line? Penso che lo strumento in questa situazione sia stato davvero molto utile ed efficace ma che abbia dei limiti.
Il mezzo offre una sorta di protezione in quanto ci permette di far vedere all’altro solo ciò che si vuole. Quanti pazienti mi dicevano di vestirsi per le riunioni di lavoro solo fino a dove la telecamera potesse riprendere, oppure I ragazzi che se non sapevano rispondere alla domanda del professore spegnevano la telecamera, o ancora dicevano di avere un problema tecnico per sottrarsi all’interrogazione o anche solo per potersi mangiare il proprio panino in santa pace senza che l’insegnante li potesse vedere.
La tecnologia ci lascia molta libertà di scegliere se esserci o non esserci e come esserci. Di essere collegati ma contemporaneamente scollegati. Anche io come docente universitaria mi sono trovata a fare gli esami on line e quando erano altri miei colleghi a interrogare di altre materie conservavo l’audio ma disattivavo la telecamera, così potevo fare altre cose. Interrogavo gli studenti ma ero anche a casa a fare faccende di casa.
Quindi è innegabile che la dimensione on line ti lasci più libertà e per certe situazioni possa essere uno strumento molto vantaggioso.
Tornando alla domanda iniziale su cosa manchi nella relazione virtuale, manca L’ essere presenti nel qui ed ora con tutti se stessi: alla lunga questa mancanza diventa sempre più presente alla persona stessa.
Sembra che questo essere presenti in più luoghi contemporaneamente porti alla percezione di un’assenza. Sembra un paradosso ma è così. E’”l’assenza” che i ragazzi grandi fruitori di web sentono di più. A me è servito un po’ di tempo prima di sentire cosa stessi perdendo a vivere frammentata un po’ qua e un po’ là. Io avevo usato il web fino a quel momento solo per reperire informazioni e leggere i quotidiani e non avevo esperienza in prima persona della costruzione di relazioni nel web, come invece i ragazzi hanno.
La scuola è il luogo dove si costruiscono principalmente relazioni e anche l’apprendimento ormai passa dalla capacità di costruire relazioni di fiducia e rispetto. I ragazzi questo lo sanno bene, e gli piace molto; dunque, se è indubbio che nella classe virtuale ci si possa muovere con più libertà, il prezzo che si paga è altissimo: la perdita di quella energia che circola nelle classi di adolescenti, degli odori forti, dei rumori forti, che fanno sentire nell’aria qualcosa per cui valga sempre la pena vivere anche nei momenti di crisi e di sconforto che gli adolescenti possono provare nel loro percorso di crescita.
Si tratta di qualcosa che dal web non passa e che ci rende così squisitamente vivi e umani. Quindi forse quello che col tempo mi è venuto a mancare nelle sedute on line è proprio la «presenza» in tutte le sue sfaccettature, dove il non verbale comunica più del verbale e dove lo stare insieme fa nascere qualcosa di unico, di potente, di inafferrabile e di vitale di cui l’essere umano è portatore, di cui ha bisogno e che nessun pc attuale, potrà mai decodificare. Che è il motore della vita.
Ho voluto riflettere sui rischi prima citati non per essere critica nei confronti dell’uso di internet, ma per provare a comprendere il senso che può avere per noi essere umani l’utilizzo del web.
I vantaggi del web sono esperiti da tutti noi in tutte le età.
Quanti nonni nel lockdown hanno potuto mantenere rapporti quotidiani con i propri nipoti grazie a internet, quanti hanno potuto continuare a lavorare da casa con grandi vantaggi nella gestione della famiglia e via così.
Essendo una realtà nuova che condiziona tutti è importante comprenderne gli effetti psicologici sulle persone, senza mai dimenticare che ciascuna persona è una realtà unica, ma che apparteniamo tutti allo stesso genere umano.
Un altro punto su cui vorrei riflettere è la solitudine. Credo sia un sentimento che i ragazzi provino oggi anche ai tempi di internet dove, come ho già detto, si è sempre connessi e si può essere in più posti contemporaneamente, non fisicamente ma con la mente. Eppure questa quasi impossibile condizione di rimanere sconnessi fa sì che si eviti continuamente il vuoto e che paradossalmente ci si trovi risucchiati dal vuoto.
Essendo la solitudine una dimensione umana ineludibile e non certo patologica, il fatto di scansarla sempre con l’arrivo di qualche messaggio rende l’incontro con se stessi molto più disorientante e sconcertante.
Davvero si pensa che ci possa essere un modo per eliminare la solitudine o che possa bastare ricevere qualche messaggio per eliminarla dal vocabolario esistenziale? Anzi penso che il frastuono e la sovrabbondanza di relazioni porti alla maturazione di relazioni per lo più superficiali, che ancora di più facciano sentire soli.
Le poche occasioni di solitudine vengono accuratamente evitate mediante una educazione in cui i figli vengono indirizzati alla maniacalità, già da molto piccoli. Basta pensare alla freneticità con cui i figli già molto piccoli vengono indirizzati verso la partecipazione alle moltissime attività pensate e volute perlopiù dai genitori.
Questo eccessivo bailamme nel quale inseriamo i nostri figli penso vada a minare una forma di solitudine creativa. Il rimanere senza fare niente e senza pensare a niente è un comportamento condannato nella società odierna.
Il tempo va consumato, organizzato proprio come si organizza il lavoro su excell: va organizzata la giornata e il tempo libero è un tempo in cui bisogna organizzarsi per divertirsi.
Questo comporta una eliminazione del tempo vuoto, quello senza un futuro, senza un progetto, senza un senso preciso.
Tutto è prevedibile e “utile” perché si sta imparando qualcosa, eppure proprio in quel tempo confuso, disorganizzato, sconclusionato, caotico c’è il seme di qualcosa di nuovo, di essenziale, di dinamico e di attivo che sfugge al razionale, ma non per questo è meno potente.
Questo qualcosa ha un valore autocurativo, serve a stare meglio e a scoprire qualcosa di non prevedibile. Il rischio quindi è che l’essere iperconnessi porti a svalorizzare l’esperienza di solitudine e a svilirla nella sua funzione creativa.
A questo proposito mi ha molto colpita una riflessione che riporta nel libro dal titolo “Adolescenti navigati” lo psicoterapeuta Lancini. Nella sezione dedicata a comprendere come la scuola possa aiutare gli adolescenti navigati, sostiene che una delle cause della difficoltà a studiare per i ragazzi di oggi sia proprio la difficoltà a tollerare la solitudine a cui non sono più abituati.
Le famiglie, come ho già detto, fin da piccolissimi (nido) hanno spinto i loro figli ad una socializzazione molto spiccata in ambienti diversi e per molte ore al giorno. Questo ha portato al raggiungimento di ottime capacità relazionali, vantaggio che condivido pienamente, ma anche ad una difficoltà importante a tollerare la frustrazione della noia, del vuoto e della solitudine.
In questa ottica si può anche meglio comprendere l’ingaggio del tutor: una figura sempre più richiesta nelle famiglie per aiutare i ragazzi nello studio, che ha proprio la funzione con la sua presenza costante di tenere viva la relazione da cui può partire lo stimolo per dedicarsi allo studio.
Prima di concludere vorrei condividere con voi alcune mie riflessioni su due casi clinici di due ragazzi Simone e Filippo rispettivamente di 17 anni e di 16 anni, per evidenziare come lo stesso comportamento possa originare da situazioni diverse, e condurre a esiti differenti e rimandare a significati diversi.
Simone si presenta come un ragazzo molto chiuso, timido, di umore sempre un po’ spento e triste. Mi limito a raccontare solo il pezzo di storia che ci interessa per questo particolare argomento. Ha una vita molto semplice, va a scuola che non trova per nulla interessante, ma riesce comunque a raggiungere la sufficienza, partecipa costantemente agli allenamenti di basket che pratica più per il piacere della competizione, che per la passione per lo sport.
E’ un bravo ragazzo, pacato, non ama le feste, la baraonda e ha difficoltà a crearsi amici e a fidarsi di loro.
Abbiamo lavorato molto insieme per comprendere quanto lui amasse e cercasse una vita pacata e tranquilla e lontana dal frastuono del divertimento, e quanto invece ciò fosse una conseguenza dettata da tutte le sue paure di esporsi con i pari.
Superata questa fase di presa di coscienza e di maggiore conoscenza delle proprie dinamiche famigliari, Simone si rese conto di aver bisogno di amici, di amare sì la tranquillità, ma di non voler rinunciare alla possibilità di costruirsi dei legami per lui soddisfacenti.
Poi è iniziato il lockdown.
Il fatto di non poter uscire lo sollevava molto dalle sue difficoltà. Finalmente poteva starsene a casa al sicuro senza temere il giudizio dei pari, degli insegnanti e dei genitori. Non dipendeva da lui la situazione e lo faceva stare bene.
Il giovane paziente trova in quella specifica situazione l’ambiente adatto per riuscire a fare un primo vero passo verso il mondo. Questo lo pensa possibile perché avviene in un ambiente virtuale facendo giochi di ruolo.
Comincia a giocare con i suoi compagni di classe che prima, nonostante li ritenesse simpatici, non frequentava. I rischi erano troppo alti per lui, non pensava di riuscire a sopportarli.
La realtà virtuale viene vissuta da Simone come una possibilità di aprirsi maggiormente senza sentirsi troppo esposto, ma comunque presente.
Passa ore a giocare e infatti i genitori mi chiamano preoccupati della situazione, vedendo il gioco virtuale solo come un gioco inutile e una perdita di tempo.
Invece il ragazzo si stava “allenando” per la prima volta a prendere coraggio e a cercare l’altro, a proporgli una parte di sé che anche lui poco conosceva ma che aveva desiderio di esprimere e di mostrare.
In questa situazione anche la scuola riesce ad affrontarla con più entusiasmo. Comincia a fare i compiti in gruppo e trova questa modalità molto più interessante e stimolante; questo determina anche una migliore qualità del tempo dedicato allo studio in solitaria.
La sua “compagnia on line”, costruita intorno alla comune passione per lo stesso gioco e -io direi- anche dalle stesse paure, non dette ma in qualche modo condivise dallo stare insieme in quella dimensione, ha rinforzato la sua identità, che Simone ha potuto spendere anche durante la sua vita fuori dal gioco.
Infatti questo gruppo di ragazzi era costituito da tre ragazzi della stessa classe, Simone compreso, cui si aggiungevano due ragazzi toscani conosciuti nel gioco e con i quali avrebbero poi trascorso le loro vacanze estive.
Anche nella realtà virtuale evidentemente come nel reale le persone si scelgono perché, posso immaginare che a quel gioco virtuale giocassero anche altre persone, che però sono passate senza lasciare traccia.
Esattamente come succede nella realtà, in cui si frequentano molte persone, ma ci si trova con poche. Qualcosa di umano è scattato tra loro, che va al di là del gioco stesso e dello strumento.
Il virtuale per Simone ha preso la forma di un luogo dove ha potuto sperimentare dei propri elementi identitari sentendosi più protetto e meno giudicato. I due mondi, reale e virtuale, si sono intersecati e sono stati per lui egualmente significativi per la sua crescita.
Dal gioco si può uscire e rientrare in qualunque momento e può diventare come in questo caso un supporto per la crescita.
Filippo invece è un ragazzo molto chiuso, con pochi amici e anche con poco desiderio ad averne.
Il mondo non gli piace. Troppe responsabilità, troppo impegno bisogna metterci per raggiungere qualche obbiettivo, e lui proprio non ne ha di energie.
Ogni attività sembra essere vissuta da lui solo nei suoi aspetti più faticosi e sembra non intravedersi neanche una piccola speranza che qualcosa possa anche essere divertente, leggero e gratificante.
Durante il lockdown il virtuale per lui è stato un mondo dove potersi isolare, un mondo senza frustrazioni, un mondo segreto dove non si conosce nessuno e dove non bisogna farsi conoscere da nessuno.
Si è iscritto ad un sito chiamato appunto “Segreto”, dove è possibile scrivere un proprio segreto senza svelare la propria identità. Non voglio che nessuno sappia che esisto.
La scelta del sito “Segreto” tra tante realtà che offre il web è molto indicativa del suo stato d’animo, dove ancora la vergogna, la paura di mostrarsi agli altri è molto forte e dove c’è il desiderio di essere letti da qualcuno, ma prevale la sfiducia nel fatto di poter essere capiti da qualcuno del mondo sia reale che virtuale.
Quindi meglio esporsi con una falsa identità.
Il suo disperato bisogno di un legame sembra non riesca a trovare un canale di espressione che sia reale o virtuale.
Anche nel web si nasconde.
Invece di essere una finestra verso il mondo, il web è stato per lui un posto dove annientarsi e dove trascorrere molto tempo senza il rischio di incontrare qualcuno: ma comunque una possibilità di comunicare con qualcuno seppure sotto falsa identità.
A differenza del caso riportato prima il web, Il gioco virtuale per Filippo non è stato un luogo di esplorazione e di sperimentazione e di “ponte” del reale, bensì un luogo per continuare a negare il reale e la ricerca di relazioni vere
Questo ragazzo sembra non riuscire a trovare una mediazione tra il proprio mondo interno e le richieste del mondo esterno: quindi la strada che segue è quella di sottrarsi per quello che riesce agli obblighi della realtà, per scomparire nel gioco virtuale E in un mondo di fantasia per lui rassicurante.
Il prezzo che paga è però molto alto, perché c’è una rinuncia implicita a trovare soddisfazione e consolazione nelle relazioni con l’altro da sé.
Credo in conclusione, che ciò che accade nel mondo del web vada preso sul serio, esattamente come ciò che accade fuori. Sia per quanto riguarda gli adulti che per i ragazzi.
Che possa essere un’opportunità per crescere. Per reinventarsi.
Questa è la nuova realtà in cui siamo immersi tutti, come genitori, come insegnanti, come terapeuti e così via.
Vale la pena diventarne consapevoli come fanno i ragazzi e avere il coraggio di esplorarla senza troppi pregiudizi e timori.
D’altra parte l’essere umano- è capace -di adattarsi in modo creativo a situazioni nuove, come la storia millenaria ci insegna.