Il disturbo narcisistico di personalità come si manifesta
“L’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche; se c’è una qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati.” Jung
A cosa serve l’altro?
La domanda mi ha subito molto intrigata: è composta da vocaboli che suonano provocatori e contraddittori tra loro e che aprono ad un interrogativo che può sembrare scontato e di facile e immediata riposta, ma ad una più accurata riflessione non è così!
Intanto il verbo “servire” presuppone che le persone cerchino il contatto con l’altro nella misura in cui possano ricavarne dei vantaggi.
L’altro viene avvicinato per guadagnare qualcosa; alla stregua di un oggetto come tanti, che migliora la vita delle persone, entrati nella nostra pratica quotidiana e che ci aiutano a vivere meglio. La cultura predominante del consumismo ci rende dipendenti e fruitori di oggetti e di sevizi che teoricamente dovrebbero semplificarci la vita creando benessere.
Se l’altro è un oggetto che usiamo per stare bene e questa è la formula accettata socialmente e sostenuta dalla cultura predominante del consumismo come ci spieghiamo il malessere, non dico crescente perché non ho elementi per poter quantificarlo rispetto ad altre epoche, ma si può affermare con ragionevole certezza che il disagio dilaghi, nonostante l’aumento di oggetti che semplificano la vita vedi i vari device, elettrodomestici, domotica, macchine con intelligenza artificiale ecc. Il disagio, il malessere la sofferenza è presente in ogni strato della nostra società e si declina nella violenza, nell’esclusione dell’altro e nell’assenza di felicità, nell’apatia.
La nostra vita è sempre più ricca rispetto al passato, e questo invece si può quantificare, di oggetti utili che ci agevolano la vita ma a questo progresso esponenziale delle comodità, del benessere economico non corrisponde un altrettanto progresso nel viversi la vita con gioia e serenità.
Dovrebbe essere tutto più semplice e più prevedibile, i nostri ragazzi dovrebbero essere appagati dalla loro vita passata in rete e di vivere con tutte le comodità a cui sono abituati. Possono disporre di quello che vogliono e di chi vogliono accedendo ad una sola applicazione in cui è possibile conoscere persone selezionando delle caratteristiche fisiche e di carattere, proprio come si fa quando vogliamo comprare un paio di scarpe o altri oggetti.
Quest’anno i ragazzi dalla seconda media (12 anni) alla 5 superiore (19 anni), hanno passato in media 2 mesi su 3 in DAD.
Dai racconti dei genitori che sono giunti a me emerge un quadro abbastanza omogeneo sullo stile di vita dei ragazzi in DAD. Erano a casa comodi al caldo; non si sono trovati ad affrontare il freddo invernale delle 7 del mattino o trovarsi tutti stipati nei pullman per raggiungere la scuola. Erano a casa si svegliavano poco prima dell’inizio delle ore scolastiche, accendevano i pc e ritrovavano dall’altra parte dello schermo l’insegnante che probabilmente diceva le stesse cose su per giù che avrebbe detto in presenza, ma questo non ha aumentato l’entusiasmo o quantomeno un sufficiente interesse verso la scuola. Le richieste di aiuto da parte di questi ragazzi e delle loro famiglie sono molto aumentate sia nel pubblico, che nel privato.
Molti di questi ragazzi condividono un sentimento di disorientamento: si sentono spersi, senza una meta, chiusi in una bolla da cui osservano il mondo esterno verso cui non provano nessun interesse. Non mi riferisco alla scarsa motivazione allo studio, ma ad una più generale demotivazione alla ricerca di un mondo fuori dalla propria famiglia considerando questo passaggio come uno dei compiti imprescindibili e più importanti dell’adolescenza, da cui deriva la costruzione della propria identità.
In dad l’allentamento delle relazioni, il distanziamento sociale fa sentire i suoi effetti sul bisogno innato dell’uomo di relazioni-vicine-autentiche con le persone.
Ciò che clinicamente ho potuto osservare nel mio studio è che i ragazzi hanno reagito a questa dimensione di “isolamento” in due modi. Ragazzi o ragazze che hanno apprezzato molto la possibilità di sottrarsi da un pezzo di realtà e di limitare il proprio campo di crescita allo studio, dedicando le loro energie al rendimento scolastico negando bisogni di socialità per evitare le difficoltà che inevitabilmente l’esposizione al “gruppo reale di coetanei” scatena. Questi ragazzi dicono di stare molto bene in Dad ma qualcosa non torna visto che poi il vissuto che portano in generale è di “perdita”, di tristezza e di mancanza di desiderio nell’intraprendere relazioni di alcun tipo.
Altri ragazzi invece hanno completamente disinvestito nella scuola dad, creandosi un mondo a parte, spesso notturno, in cui le regole, le responsabilità, i limiti non esistono. Gli amici sono molto presenti nella loro vita sia tramite instagram, oppure videogiochi in gruppo, oppure anche gruppi in presenza, ma tutto questo avviene negando il proprio ruolo sociale di studente.
Una mia paziente di 12 anni in seconda media mi raccontava di passare tutta la notte a chattare con i suoi compagni di scuola e al mattino non riuscendo a svegliarsi non è più riuscita a seguire le lezioni e ha abbandonato la scuola. Tutto ciò veniva raccontato con ilarità e spensieratezza senza la benchè minima presa di coscienza della conseguente inevitabile bocciatura, ma dall’altra parte raccontava di attacchi di panico che inaspettatamente e inspiegabilmente la tormentavano.
Queste esperienze riportate dai ragazzi sembrano far presumere che il distanziamento fisico dettato dalla dad sembra aver sollecitato anche un distanziamento psicologico da se stessi e dagli altri e questo evidentemente crea un malessere.
La relazione umana è qualcosa che va oltre a ciò che succede nel concreto, è qualcosa che va oltre lo scambio di informazioni non è equiparabile ad un oggetto e alle caratteristiche inanimate di un oggetto per quanto possa essere utile ed essenziale alla vita delle persone. Forse questi ragazzi e le persone in genere di tutte le età, vengono appagati non tanto dalle comodità e dagli strumenti utili, entrambe caratteristiche presenti in dad, ma dalla ricerca di situazioni e di relazioni in cui sia possibile uno scambio a più livelli, intellettuale, cognitivo, affettivo, emotivo e corporeo.
Quindi la domanda di partenza vorrei riformularla in chi è l’altro e che relazione esiste tra gli esseri umani che rende l’altro così indispensabile per la sopravvivenza psicologica dell’essere umano. Può l’altro essere indispensabile e non utile? Quali sono i valori che sottendono ad una relazione autentica?
Parlare dell’Altro vuol dire parlare necessariamente anche di un soggetto che si relaziona con l’altro. L’ altro non può esistere senza che ci sia qualcun’altro che possa certificarne la presenza: se paradossalmente rimanesse una sola persona in tutta la terra, l’altro non potrebbe esistere! Quindi quando si parla di relazione con l’altro si parla sempre almeno di una coppia. Infatti la vita di tutti noi è iniziata con l’incontro fra due persone da cui nasce un terzo e questo figlio da subito per la sopravvivenza necessita delle cure fisiche e psichiche di qualcuno.
A questo proposito vorrei fare alcuni brevi cenni sullo sviluppo psichico del bambino.
Le teorie rispetto lo sviluppo psico fisico del bambino sono molto cambiate negli ultimi anni.
Intorno agli anni ’60 la psicoanalista studiosa dello sviluppo del bambino e della cura delle psicosi nei bambini, Margaret Mahler, ipotizza che la nascita biologica e la nascita psicologica del bambino avvenga in due momenti diversi. La nascita biologica del bambino avviene alla nascita mentre la nascita psicologica, è un processo di separazione e individuazione che ha inizio tra il 4° mese e i 3 anni di vita del bambino, ma che in quanto processo intrapsichico dura tutta la vita.
Questo processo di individuazione e separazione si suddivide in varie fasi.
La prima veniva denominata “autistica” caratterizzata dalla relativa mancanza di investimenti a stimoli esterni, in quanto come si può osservare il neonato in quel periodo di vita, ha lunghi periodi di sonno, e sembra essere rapito da un suo mondo personale intrapsichico come già la Klein ci aveva insegnato, e disinteressato ad interagire attivamente con l’ambiente.
Dagli anni 60, però, grazie agli innumerevoli dati provenienti dalle ricerche fiorite sull’interazione genitore-bambino e alla possibilità di utilizzare nuovi strumenti di osservazione, quali le tecniche audiovisive, le analisi sequenziali, più avanti l’ecg e altre tecniche specifiche di osservazione si è potuto dimostrare che l’attività psichica inizia già a partire dalla vita fetale e che non coincide con il momento della nascita; infatti a partire dal sesto mese il feto è capace di rispondere a stimolazioni di varia natura e di conservare tracce mnestiche di alcune percezioni. Quindi lo studio e l’osservazione del neonato ci porta a riconoscere una competenza relazionale che è attiva fin dalla nascita e anche prima e che apre a tutte quelle teorie sull’intersoggettività (Ammaniti e Gallese).
L’intersoggettività, è quel costrutto che descrive le interazioni continue e reciproche, presenti sin dai primi giorni di vita, attraverso le quali gli esseri umani “giungono [progressivamente] a conoscere la mente degli altri” (Bruner). Negli ultimi decenni, l’interesse per il tema dell’intersoggettività si è affermato in molti campi scientifici: dalla psicoanalisi relazionale, all’Infant Research, dalla cognizione sociale, alla neurobiologia – che, pur utilizzando metodi di indagine e modelli teorici sostanzialmente diversi, hanno tuttavia raggiunto interessanti aree di convergenza.
Nelle teorie dell’intersoggettività si studia il vissuto di esperienza condivisa con un altro essere umano: il contatto mentale; un contatto tra la soggettività di persone che entrano in relazione tra loro con caratteristiche e modalità uniche a quell’incontro di persone. Il contatto è immediato ed è involontario ed è istintivo. Capiamo bene di cosa si tratta quando abbiamo a che fare con persone autistiche dove il flusso di comunicazione tra le due menti risulta essere deficitario.
Parlare di intersoggettività vuol dire che le funzioni intrapsichiche intese come nella psicoanalisi classica, esistono solo in funzione di qualcun’altro e non come risultato di conflitti prodotti esclusivamente nella mente del soggetto, ma nella relazione tra due menti. Due poi sono i filoni sulle teorie dell’intersoggettività: un filone che considera innate le capacità del bambino di mettersi in relazione (Trevarthen, Meltzoff) Stern) e l’altro filone che considera le competenze del bambino il risultato della co-regolazione tra bambino e ambiente (Fogel, Tronick, Beebe)
Stern afferma che l’intersoggettività agisce come “un sistema motivazionale innato”. Durante la gravidanza, e il periodo successivo al parto, nei mammiferi e negli esseri umani avvengono importanti trasformazioni neurobiologiche, definite dall’attivazione del circuito neuronale che stimola l’amore materno e il piacere nel prendersi cura dei figli: questo circuito presenta un substrato neurobiologico sovrapponibile a quello dell’amore sentimentale. Il volto del bambino rappresenta uno stimolo affettivo particolarmente importante per le cure materne (come dimostrato dalla ricerca neurobiologica), che attiva diverse aree cerebrali, fra cui quelle dei neuroni specchio. Lo sviluppo della matrice intersoggettiva primaria, ha inizio immediatamente dopo la nascita ed è caratterizzata dall’orientamento reciproco, dall’attrazione e dalla ricerca di un contatto tra madre e bambino. La costruzione della matrice intersoggettiva primaria è stimolata dalla capacità umana di orientarsi verso i volti e il contatto occhio-ad-occhio.
Da sempre anche in campo filosofico a partire da Aristotele si pensava all’uomo come ad un essere sociale ma per studiare la mente dell’uomo ci si è concentrati su ciò che succede nella mente del singolo riguardo la relazione con l’altro. Cioè la psicoanalisi certo ha compreso da subito l’importanza dell’ambiente relazionale ma si è focalizzata soprattutto sui processi intrapsichici che avvengono nella mente del bambino.
Qui invece la prospettiva cambia completamente perché la propria mente non è solo in relazione e quindi modificata dalla stessa relazione ma esiste solo in relazione con la mente dell’altro e quindi lo sguardo pondera anche come quella mente è in grado di capire la mente dell’altro. La visione intersoggettiva oltre a dirmi cosa succede nella mente della persona in relazione all’ambiente mi dice anche come e cosa quella mente capisce dell’altra mente. Sulla base di questo ragionamento Stern afferma che il Sé individuale, si fonda sulla reciprocità sociale e sullo sviluppo del “senso del noi”. In questa visione il senso del sé viene a coincidere con il senso del noi, confermando ancora l’intreccio indissolubile tra l’Io e l’Altro.
Le sopracitate teorie sono a mio parere interessantissime e avrebbero bisogno di molto più tempo per essere esposte in tutta la loro interezza ma ai fini di questo intervento in estrema sintesi mi interessava sottolineare che l’essere umano già dal suo primo vagito nel mondo è un essere in cerca in maniera “inconscia” di esperienze relazionali e ha degli istinti innati in termini psicoanalitici o delle competenze in termini neurologici, che lo attivano ad una ricerca attiva alla e nella relazione e che questo produce una vita psicologica affettiva ed emotiva in cui è da subito un soggetto attivo e capace, dotato di risorse indispensabili allo sviluppo.
Quindi possiamo affermare che l’Altro non può essere considerato qualcuno che serve e di cui si può disporre, ma è essenziale per la nascita e lo sviluppo delle persone. Per capire meglio cosa vuole dire avere bisogno dell’altro vorrei raccontarvi il mito di Narciso.
Il mito di Eco e Narciso è una storia che ho sempre trovato molto commovente e che tramite le immagini che suscita secondo me, tale racconto riesce a far sentire gli stati emotivi che ha provato Narciso: una tristezza assoluta, un senso di ingiustizia, un senso di impotenza e la nostalgia per la perdita di qualcosa o qualcuno.
You tube il mito di Eco e Narciso di Ovidio letto da Paolo Rossini. Molto bello sentirlo recitare con le immagini che scorrono di dipinti famosi su Narciso ed Eco.
“Eco e Narciso” è uno dei miti presenti nel libro III delle Metamorfosi ovidiane, in cui emerge il tema principale della trasformazione e dell’amore, legato da una profonda analisi psicologica. Ovidio riporta la leggenda di due opposti, Narciso incapace di amare altro se non se stesso ed Eco ossessionata da un amore non corrisposto.
Narciso vede il riflesso della propria immagine sull’acqua e subito rimane stregato dalla propria bellezza. Si chiude in una forma quasi “autistica” in cui l’Altro non esiste più. Sembrerebbe che l’incontro con l’immagine di se stessi senza l’aiuto dell’ Altro non possa essere un incontro proficuo e benefico nell’incontro con se stessi e nell’auto realizzazione. Per poter conoscere se stessi serve l’incontro con l’altro. Narciso dice: “ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente.” Come a dire che senza l’”Altro” il tesoro che posseggo è irraggiungibile e porta all’impotenza. Narciso prova passione e amore ma verso un inganno. Quante volte ci capita di vedere pazienti innamorati o meglio dipendenti da qualcosa che si sono costruiti loro, da un’idea, da un’idealizzazione di una persona, piuttosto che di una persona in carne e ossa. Imprigionati nel loro narcisismo, incapaci di rendersi conto della presenza dell’altro.
L’inganno per Narciso è duplice: da una parte non riconosce se stesso nell’immagine riflessa e dall’altro non riconosce altro da sé in grado di fargli provare quella passione che prova per se stesso. L’estraneità è verso l’Altro in grado di amarlo e verso se stesso in quanto non si riconosce. L’inganno è anche nel fatto che quando lui sorride anche la figura sull’acqua sorride, quando lui tende la mano la persona dell’acqua prontamente gli tende la mano. Narciso viene affascinato dalla disponibilità di questa persona che risponde con la sua stessa grazia ai suoi tentativi di avvicinamento e forse questa specularità e simmetria rimanda all’illusione di una unione perfetta dove le differenze sono azzerate. Ma così facendo l’Altro che invece è diverso e unico non può essere tollerato, ma rifiutando l’altro anche la propria unicità viene rifiutata. Quando una goccia d’acqua cade in una pozza d’acqua non esiste più come singola goccia si perde nell’acqua e svanisce e così se non vi è l’altro a determinare un limite con la propria diversità l’individuo si disgrega. Il mito, sembra volerci insegnare che il vero narcisismo non è tanto l’amore esagerato e innaturale rivolto a se stessi, quanto, al contrario, la vera e propria chiusura al sentimento d’amore stesso e all’empatia profonda verso l’Altro.
L’ immagine riflessa nell’acqua è per definizione senza corpo, può generare un rapporto intenso e dirompente come è successo a Narciso e come succede a molti pazienti narcisisti, ma che porta alla disperazione. Non ci si puo’ non affezionare a questo ragazzo così bello, pieno di vigore che corre libero nelle praterie (anche il paesaggio circostante ce lo immaginiamo bello, rigoglioso e fiorente) che potrebbe avere tutte le ragazze, e che invece piange e si dispera perché non può avere la prima e unica persona di cui si è innamorato. Fa tenerezza pensare alla sua condizione di isolamento che vive e che si è creato ma senza volerlo e senza rendersene conto. I sentimenti non si comandano e sono molto potenti.
Il corpo dell’altro viene escluso e quindi anche la possibilità di incontrare la mente dell’altro, che con la propria soggettività dona valore alla propria soggettività in un gioco di riflessi e rispecchiamenti dove però c’è tutta la persona e non solo l’immagine bidimensionale della figura riflessa.
Narciso rifiutando Eco e le persone che lo amano rinuncia alla possibilità di essere aiutato ad uscire dal proprio inganno di poter trovare tutto ciò che ha bisogno in se stesso.
Narciso dopo l’illusione inziale di aver trovato l’anima gemella, scopre che non è reale e soffre molto e grazie a quel sentimento vive l’esperienza della presenza dell’altro, derivata dalla sua mancanza e di conseguenza l’incompletezza di qualunque essere umano. Il dolore lo rende fragile, bisognoso dell’altro e profondamente umano. Perché se è vero che come ci dimostrano gli innumerevoli studi sull’intersoggettività che l’uomo è un animale sociale è anche vero che questo difficile gioco di relazioni tra le menti è tutt’altro che semplice e dagli esiti incerti e imprevedibili. L’uomo è un animale fragile che per sopravvivere fisicamente e psicologicamente ha bisogno di ricevere molto aiuto, molto sostegno da parte dell’ambiente. E accondiscendere a questo naturale bisogno non è scontato. Lo vediamo nei nostri pazienti quando pur stando molto male non accettano e non cercano l’aiuto di qualcuno e si barricano dentro una solitudine che protegge dalle delusioni ma rinunciano alla possibilità del conforto che solo l’incontro con l’altro può dare.
L’indovino Tiresia, risponde alla domanda della mamma di Narciso di sapere se avrebbe vissuto a lungo e le risponde: “se non conoscerà se stesso”
Cosa potrebbe voler dire questa risposta? E’ così pericoloso conoscere se stessi, da condurre ad una morte prematura o meglio all’autodistruzione?
Oggi conoscere se stessi sembra quasi un mantra obbligato per trovare la felicità, la troviamo nella morale di molte storie raccontate nei libri o che si vedono in televisione. Ma certamente nasconde dei pericoli, non sempre il percorso di conoscenza di se stessi vuol dire incontrare gioie, paesaggi solari profumati e colorati. A volte l’incontro con se stessi è l’incontro con l’oscurità con la solitudine più torbida, con l’informe e il deforme. Soprattutto quando il percorso esclude l’altro.
Ecco come Narciso non incontra l’altro. E’ l’altra faccia della medaglia del rifiuto di un legame profondo, vero e vitale. Amare Narciso in maniera assoluta senza essere ricambiati, rimanendo legata all’immagine che si è fatta di Narciso e non alla persona di Narciso che non conosce realmente. Anche qui il sentimento domina ed è il risultato di un gioco di proiezioni che sono solo nella mente di Eco che evita l’incontro con il corpo dell’altro sostituendo la realtà con il proprio mondo intrapsichico privo di relazioni con l’esterno. Così come Narciso vive crogiolandosi nel suo “riflesso visivo”, la ninfa Eco è un “riflesso acustico” dell’altro. Entrambi hanno bisogno di potersi rispecchiare per poter esistere. Ma nel rispecchiamento vedono solo loro stessi. E di qui inizia il percorso di autodistruzione, di tristezza di struggimento….eppure Eco era considerata dalle altre ninfee quella più colta e capace ad intrattenere conversazioni vivaci. Quante volte vediamo pazienti che sono pieni di buone qualità sia fisiche estetiche, che di personalità ma che rimangono imbrigliate in relazioni amorose sterili, deleterie, infelici e che non riescono a lasciare andare le persone che le svalutano. In queste situazioni si può suppore che il problema del paziente è più con se stesso che con il partner che riconosce come il responsabile di ogni sua difficoltà. Sembra che riescano a vedersi e a definirsi solo nel rapporto con l’immagine che hanno dell’altro e non nella relazione con il partner effettivo.
Tornando alla domanda iniziale su chi sia l’altro e che relazione esiste tra gli esseri umani e se l’altro sia indispensabile mi sembra di poter dire che l’esperienza in dad che hanno fatto i ragazzi ci abbia fornito un campo di osservazione che probabilmente se non ci fosse stato il covid non avremmo potuto avere. Abbiamo potuto osservare che la lontananza fisica e la distanza emotiva che impone uno schermo abbiano avuto l’effetto di deprivare il ragazzo, in una fase particolare della vita, di parti di sé che si palesano nella relazione con l’altro in tutta la sua portata fisica e psichica e che sono necessari nella costruzione della propria identità. Venendo a mancare nella vita dei ragazzi una routine nella realtà pluridimensionale presente nella frequentazione a scuola e di tutte le altre attività in presenza, viene meno il limite che si percepisce o che si costruisce secondo le teorie sull’intersoggettività, quando si entra in relazione con gli altri.
Il mondo reale dei ragazzi fatto di scuola, di sport, di uscite con gli amici è stato sostituito per molto tempo da esperienze vissute attraverso il pc che necessariamente hanno creato un distanziamento dagli altri e quindi anche da se stessi provocando un senso di alienazione dal proprio quotidiano e creando nella mente dei ragazzi una gran confusione tra ciò che è reale e ciò che è immaginato.
Questi bisogni caratterizzano in particolare i ragazzi in quanto in quella fase della vita si definiscono i primi rudimenti della propria identità, ma tali bisogni ci accompagnano tutta la vita esplicitandosi in modi diversi a seconda delle fasi di vita. Il rapporto con l‘altro implica il rapporto con se stessi: come dicevo il Sè e il Noi sono interconnessi e si alimentano, crescono e si conservano l’uno con l’altro. Non esiste un Sé senza un Noi.
Per concludere la storia di Narciso, la sua nostalgia, la tristezza la passione indirizzata verso un oggetto invece che verso un soggetto ben si adatta a rappresentare la realtà dei ragazzi che per motivi fuori dal loro controllo, hanno vissuto e a raccontare la dimensione di solitudine nel quale l’essere umano di tutte le età si ritrova se privato di relazioni autentiche.
Un articolo di repubblica dell’11 maggio intitola un suo articolo: Né felici, né tristi: languishing, il “torpore emotivo” è lo stato d’animo del 2021. Il nuovo termine coniato dal sociologo Corey Keyes (in Italiano possiamo tradurlo con “languire”) che identifica lo stato psico-emotivo di questo momento storico: fiacchezza di sentimenti, gioia che scarseggia, emozioni non pervenute, poca voglia di fare.
Ci sentiamo sospesi, instabili, fragili come se la gigantesca rete umana che sostiene ogni singolo sia stata allentata dal distanziamento e dalle limitazioni del contatto: la stretta di mano, la pacca sulla spalla, il bacio per salutarsi, gli abbracci: tutti gesti che anche se apparentemente di poco conto tengono insieme, consolidano la fitta rete di uomini e ci fanno sentire vivi e un po’ meno soli in questo spazio infinito in cui la Terra con i suoi abitanti, è un puntino minuscolo sperso nell’universo.